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Massimo Privitera

Addottoratosi a Bologna nel 1990, ha insegnato Storia della musica presso i Conservatori statali e non statali, dove è stato anche Bibliotecario. Dal 2002 è stato professore associato, presso l’Università della Calabria, dove ha fondato e diretto il coro dell’Università della Calabria. Attualmente (2015) è professore ordinario presso il Dipartimento scienze umanistiche dell’Università di Palermo.

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Commento a "Serenata alla fanciulla dai capelli di lino"

Commento a "Il fiore che restando passa"

Commento a "Mille cetre"


"Serenata alla fanciulla dai capelli di lino"

7 marzo 2015
[...]
Molto incuriosito dalla suggestiva presentazione che mi hai mandato, ho scaricato il file ed ho ascoltato il tuo pezzo. E - sì - ci ho ritrovato la trasparenza della ragazza dai capelli di lino - della quale, convengo, non ci si può non innamorare.
Prendendo spunto dal tuo riferimento alla questione del titolo, ti dico che, se avessi ascoltato il tuo pezzo senza conoscere il titolo che gli hai dato, non avrei pensato ad una serenata: per il respiro dilatato, il tessuto rado, il tratto melodico un po' siderale, e altri elementi. Oppure una serenata, d'accordo, ma onirica - o nel crepuscolo.
L'unica cosa che mi lascia un po' perplesso è un punto che evidentemente anche per te è problematico, perché ne tratti nella presentazione: il pianoforte. La sua presenza appare un po' spaesata ed incerta: la scarsità di verticalità non è compensata da un gesto melodizzante - che può esse invece un tratto molto affascinante  del pianoforte. Quando entra per la prima volta, sembra che il pezzo diventi un concerto per pianoforte e orchestra; e invece subito la cosa rientra.
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M.P.

7 marzo 2015

[...]
L'idea della Serenata era arrischiata da vari punti di vista. Hai ragione - ho cercato di evitare l'effetto più evidente e quando tu parli di serenata onirica e crepuscolare cogli perfettamente nel segno. Sulla presenza del pianoforte i pareri sono discordanti. Ma talvolta nel comporre si è in qualche modo trascinati dalla composizione. E mi sembra di non poter fare che così. Credo che sperimenterò - se ne ho il tempo - anche una versione per solo pianoforte (ma in realtà preferisco fare altre sperimentazioni).
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G.P.

 



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"Il fiore che restando passa"

20 gennaio 2013
[...]
Ho ascoltato il tuo brano corale, dove ho sentito qualche eco dei pezzi giovanili per coro di Nono. Penso che il programma da te usato non renda giustizia al tuo pezzo, perchè i timbri sono falsati, soprattutto nei passaggi di registro, e la pronuncia delle sillabe è confusa. Singolare mi è apparsa la tua scelta di costruire un mosaico (forse, meglio, una treccia) di monodie piuttosto che una continua interazione fra le parti corali, che presenta il coro come un insieme di parti soliste (ma forse la resa sonora non felice non mi ha fatto percepire adeguatamente qualche bicinium). Il testo è molto interessante, anche se non ho capito bene le indicazioni conclusive. Comunque, da un punto di vista direttoriale, mi pare un pezzo di non facile concertazione (ma ho fatto solo un ascolto, magari riascoltandolo lo vedrò diversamente).
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M. P.

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24 gennaio 2013
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Sugli aspetti tecnici del brano anch'io non sono troppo soddisfatto. Andrebbe quanto meno "ripassato" da un fonico, come si fa per ogni CD. Per di più le orecchie di un musicista sono finissime, ed io sono ad esempio molto infastidito da alcuni elementi estranei infinitesimali che andrebbero cancellati con un editor dello spettro. Le cose si complicano poi in rapporto alle modalità dell'ascolto. Istintivamente siamo portati a interrogarci sulla fedeltà del campione, in questo caso in particolare sulla chiara articolazione del testo. Questa attenzione tuttavia non mi sembra del tutto giusta. Nessuno ascolta un coro cercando di trovarvi le parole ben spiccate e chiaramente comprensibili - pensa all'ascolto di una passione bachiana che è in tedesco... L'articolazione la si sente quando si sa a memoria il testo - ed in questo caso ho notato un fenomeno acustico che ho trovato sorprendente. In taluni passi l'articolazione mi sembrava oscurissima, ma era sufficiente che io prendessi in mano il testo (che  conosco ovviamente benissimo) perché ogni parola mi sembrasse di una chiarezza esemplare. Questo strano fenomeno acustico mi capita ancora dopo una infinità di ascolti.

Un altro aspetto ancora riguarda la ricerca di somiglianze. L'ascoltatore - debbo dire soprattutto per i pezzi di musica strumentale con campioni - è portato inesorabilmente a fare dei confronti tra virtuale e reale, e questo è un modo di ascoltare del tutto sbagliato. Il suono è quello che è, ti può piacere o non piacere, ma musicalmente devi ascoltare il suono che odi e non quello che hai in mente... Infine c'è il problema che il pezzo cambia (soprattutto timbricamente) secondo l'apparato di riproduzione che uno ha in casa. Resta purtroppo il fatto che il programma di gestione del mio coro è faticosissimo da usare, ed è anche fatto piuttosto male cosicché alla fine - essendo io poco paziente - sono ricorso ad un mezzo un po' brutale per la costruzione del pezzo.

Tieni conto poi che è il primo pezzo per coro con testo che scrivo e che sono molto sorpreso da alcuni aspetti della scrittura corale che non avevo mai toccato con mano, ad esempio, la grandissima espressività del coro, nonostante i suoi mezzi poverissimi rispetto a ciò che si può fare con gli strumenti, che mi ha indotto a ripetere spesso motivi con variazioni minime. E' stata nel complesso un'esperienza compositiva interessantissima. Forse potrei anche imparare a usare meglio il sia pur brutto programma di gestione (purtroppo non prevedo miglioramenti nel tempo perché cose di questo genere sono prodotte per uso cinematografico e la resa di questo coro è più che sufficiente allo scopo, anzi sono sufficienti persino i cori AAA ed OOO). In effetti non vi è stata concorrenza su questo programma che rimane per il momento unico nel suo genere.

Per quanto riguarda le scelte espressive non ho molto da dire. Ho temuto molto sia un puro andamento "gregoriano" sia, all'opposto, il canto di montagna! Credo di averli evitati entrambi. La scelta prevalente della monodia è ovviamente voluta, ma non manca la polifonia a due voci con una abbastanza particolare scelta di pedali e di distinzione tra le parti. Sulla base di ciò che tu dici forse è il caso di migliorare la presentazione, un po' troppo criptica e filosofica effettivamente nel suo senso complessivo che dovrebbe emergere nel finale. Già la mia scelta di parlare del fiore che "restando passa" è una sorta di enigma - forse non è del tutto comprensibile il completo rovesciamento del senso dell'originario testo goethiano. Il ricordo non esiste. Già lo spegnersi in lontananza del coro femminile proprio sul "non ti scordar di me" vorrebbe alludere all'oblio. E la ripresa invece in toni forti e drammatici del coro maschile alla disperazione conseguente.

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G.P.


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"Mille cetre"

24 dicembre 2017
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La sonorità dell'insieme è piuttosto suggestiva, e la presenza del suono delle cicale, degli uccellini e dell'acqua mi pare che funzioni. Sono invece un po' perplesso sulla sonorità  della "cetera", che mi pare tu abbia costruito mescolando suoni di liuto, chitarra e sitar (o almeno così li ho percepiti). Il suono di questo strumento immaginario mi pare disomogeneo, in certi momenti troppo pungente. Per quanto riguarda gli archi, creano quel sapore espressionista che ho trovato in altri tuoi pezzi, e che funziona bene, ma a mio parere è poco modulato (anche in quanto a intensità) e troppo stirato nel tempo.
Il momento che più mi è piaciuto è l'ingresso delle voci, nel finale, struggente e intenso.
Però, considerando il pezzo nella sua sostanza compositiva, mi pare che abbia un difetto di disorganicità, che forse deriva dal desiderio di fare una rappresentazione sonora, passo dopo passo, del testo di Pascoli (che non conoscevo e che mi piaciuto moltissimo: mi ricorda Fantasia di Carducci, dal secondo libro delle Odi barbare, che pure mi piace moltissimo). In altre parole, mi sembra che tu abbia disposto gli eventi sonori nell'ordine in cui appaiono nella poesia: prima le cicale e gli uccellini, poi la cetera, poi l'acqua, infine la dea. Ma una rappresentazione diacronica di questo genere può funzionare (ma non è neanche detto che ci riesca) se c'è¨ una voce narrante (cantata o parlata che sia), la quale dia  unità  e senso all'insieme. Trattandosi di un pezzo strumentale con un inserto vocale solo nel finale, la narrazione si perde; mi pare che l'evocazione della situazione narrativa funzionerebbe meglio sistemando le varie componenti sonore sincronicamente piuttosto che diacronicamente.
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M. P.

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27 dic 2017
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sono lietissimo per le tue annotazioni, così ampie e tempestive.  Ognuna di esse mi suggerisce una riflessione, e questo è tutto quello che chiedo, e mi è anche molto utile, in questa attività  compositiva un poco, per me, impropria, ma che - lo confesso - mi seduce. Naturalmente mi piacerebbe rispondere ad esse a distesa, ma ciò si farebbe meglio se ci si parlasse a voce, e addirittura se si ascoltasse il pezzo insieme. Qualcosa però si può dire. Sulla sonorità  della cetra hai naturalmente buon orecchio - ho manipolato un liuto per dargli la potenza che io immagino propria della cetra date le sue grandi proporzioni (niente chitarra però). E' presente invece il sitar. Tuttavia esso non interviene come momento di una cetra immaginaria, ma per differenza rispetto alla cetra: poiché si tratta di una gara, mi è sembrato opportuno  differenziare il suono della cetra dal suono della fonte - e così ho cercato di contrapporre la rigidità del suono della cetra alla liquidità del suono del sitar, dando ad esso il compito di farsi voce della natura e rammentando nello stesso tempo la distinzione tra continuità e discretezza. Tenendo conto poi del fatto che non ho scritto un racconto anche se alla base del mio brano c'è un racconto - ma una fantasia musicale, attraverso di essa mi piacerebbe suggerire musicalmente  una interpretazione di quel racconto. Il fatto che possa esservi una gara segnala una differenza, ma anche una unità - la cetra può gareggiare con la fonte. Viene dunque esaltata l'unità  tra musica e natura. E la voce - ovvero la parola - che giunge solo alla fine associa a questa unità la poesia.
[...]
G.P.


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